giovedì 25 giugno 2015

Historiador Flameante

“Il fascino dell’extrapiatto in versione
 Cuervo y Sobrinos”

La Storia è un valore fondamentale, per Cuervo y Sobrinos. Il Marchio elvetico dall’anima latina trova nei propri archivi una fonte inesauribile di ispirazione, e pervade le proprie collezioni di uno stile “classico” senza tempo, in cui interpreta con personalità forme e modelli del passato.
L'Historiador Flameante  prende spunto da un esemplare d’epoca: un orologio extrapiatto creato da Cuervo y Sobrinos negli anni Cinquanta, ieri come oggi simbolo di assoluto buon gusto ed estrema eleganza.
L' Historiador Flameante ne rielabora con sensibilità moderna il design squisito e l’armonia formale, rivelando al contempo il know-how e le competenze tecniche della Casa.
Il nome deriva dalla particolare lavorazione del quadrante, una decorazione preziosa ed
esclusiva dall’effetto fiammeggiante (“flameante”, in spagnolo).
Il sottilissimo movimento meccanico a carica manuale con piccoli secondi, che misura solo 2,5 mm di spessore, è alloggiato in una raffinata cassa dalle perfette proporzioni (40 mm di diametro x 6,2 mm di spessore).
Dal fondello in vetro zaffiro è possibile ammirarne le accurate finiture: la platina decorata a Côtes de Genève, il ponte del ruotismo con trattamento antracite, le viti azzurrate. La scritta “Testimony of style since 1882”, incisa attorno al calibro, sottolinea la classe impeccabile che da sempre contraddistingue lo stile Cuervo y Sobrinos.
Completa il look un pregiato cinturino in alligatore della Louisiana.
Con la sua rigorosa ricercatezza tecnica ed estetica, l’Historiador Flameante è destinato a
entusiasmare i più appassionati cultori della bella orologeria meccanica.


sabato 20 giugno 2015

La leggenda del Mojito e del pirata che l'avrebbe inventato




Il mojito non è solo un cocktail di rhum e menta, non è soltanto una miscela di più elementi che combinati tra loro si trasformano nell'ottima bevanda alcolica che conosciamo tutti. Il Mojito è anche una mistura di storia, tradizione, leggenda e mito. A Cuba piace raccontarla così, la versione su come è nato il Mojito e su chi l'ha davvero inventato. Hemingway l'avrebbe trovata plausibile, a suo tempo.













Sembra l'ennesimo episodio della saga di cui è protagonista Johnny Depp; si potrebbe chiamare: Pirati dei Caraibi - L'origine del Mojito.


Circolano da tanti anni leggende metropolitane, divertenti quanto bislacche, sulla vera o presunta creazione del Mojito, fresca e dissetante bevanda a base di rhum che ancora oggi fa la sua comparsa sui tavoli scricchiolanti dei bar di mezzo mondo.




Gli anziani a Cuba amano ancora raccontare, non senza un sornione sorrisetto sotto i baffi sudati, di quando nel 1536 i Corsari di Francis Drake, britannico pirata al servizio della Regina, tentarono di occupare La Havana al fine di saccheggiarla. Non vi riuscirono, ma durante i giorni di assedio pare che un sottoposto di Drake creò casualmente una bevanda che chiamò Draque in onore di Drake, il suo stimatissimo comandante. La bevanda, gradita da Drake, era a base di "aguardiente" grezzo distillato cubano dell'epoca, lime, zucchero di canna e yerba buena, una particolare menta che cresce solo a Cuba.




Altri invece raccontano che verso la fine del 700 gli schiavi caraibici producevano una bevanda dalla canna da zucchero fatta fermentare. Il nettare si mischiava poi con l'aguardiente per ottenere il "mojo" utilizzato dai curanderos per curare ogni tipo di malattia.





Nel 1862 Don Facundo Bacardi inventava a Santiago de Cuba il rhum, che unendosi con il mojo degli autoctoni diventava una bevanda mai assaporata prima d'ora: il mojito.


Ciò che poi ha reso il mojito famoso è stato un locale che ancora oggi è la storia di Cuba: Bodeguita del Medio, che ha avuto tra i suoi clienti più affezionati tale Mr. Ernest Hemingway, che amava sorseggiare quello che lui definiva il miglior mojito che avesse mai assaggiato.

Mi raccomando: zucchero di canna in fondo al bicchierone, mezzo lime spremuto, tante foglie di menta, pestate poco e non troppo forte. Poi tanto ghiaccio (va bene sia tritato che a cubetti), 2 parti di rhum (rigorosamente bianco) e giù di soda o acqua tonica fino a riempire il bicchiere. Smuovere dal fondo il tutto, mischiando piano.





sabato 13 giugno 2015

HISTORIADOR CRONÓGRAFO LANDERON

Classico e distintivo



Se esiste un marchio al quale non manca la tradizione e la storia da raccontare, quello è Cuervo y Sobrinos. Perfino nelle sue creazioni più innovative, il marchio non perde mai di vista le sue origini e la sua originale personalità, che miscela sapientemente l’anima latina e l’arte orologiera svizzera.

Con la famiglia Historiador Cronógrafo, Cuervo y Sobrinos rinnova uno dei modelli storici più caratteristici. Ispirato a un modello originale Cuervo y Sobrinos degli anni ‘50, Historiador Cronógrafo ha uno stile classico senza tempo e un design distintivo sottolineato dalle caratteristiche anse.

Un cronografo elegante, dedicato a un pubblico raffinato ed esigente alla ricerca di creazioni di lusso che resistano alle mutevoli mode del momento. I cronografi Cuervo y Sobrinos sono caratterizzati da un tocco vintage sottolineato dal diametro della cassa (41 mm), dal design grafico tipico dei quadranti anni ‘50 e dal vetro zaffiro bombato (in passato questi cristalli erano realizzati in esalite).

Historiador Cronógrafo Landeron in oro rosa 18 ct ha due quadranti classici con scala tachimetrica e un quadrante bianco smaltato. Il movimento è a carica manuale vintage Landeron con funzione cronografo 45 minuti e secondi centrali.

Historiador Cronógrafo Landeron è una riedizione limitata di 50 esemplari di un antico modello Cuervo y Sobrinos degli anni ‘50. Per evidenziare l’importanza di questo orologio e trasformare ogni modello in un pezzo unico e di grande valore è stato utilizzato un movimento esclusivo vintage creato negli anni ‘50.
I movimenti sono stati completamente e attentamente restaurati e decorati pezzo per pezzo da Cuervo y Sobrinos. Il risultato è un capolavoro, un classico diventato l’orgoglio della casa, una delizia per quei pochi che potranno godere della sua bellezza.

Edizione limitata di 50 pezzi.





sabato 6 giugno 2015

Marilyn Vs Bella Darvi di Nicola Leoni


 Una storia poco conosciuta, una rivalità nel cuore dell’epoca d’oro hollywoodiana, quando ancora esistevano divi e dive inarrivabili che spesso celavano, dietro la luminosità del grande schermo, episodi di drammatica umanità.



 Nel 1953 Marilyn Monroe era la diva più famosa del mondo e il sex-symbol più desiderato di Hollywood: ogni suo film era un successo assicurato, la sua vita veniva letteralmente monitorata dalla stampa e il pubblico le tributava un’adorazione incondizionata. Tutti i sogni e i desideri di Marilyn sembravano essersi avverati e le delusioni e le umiliazioni dimenticate. Apparentemente, non potevano esserci momenti più preziosi e fugaci. In realtà la Monroe era angustiata dalla direzione che la sua carriera stava prendendo. Nonostante avesse messo in luce qualità di attrice spiritosa e sofisticata in commedie e musical, Marilyn era consapevole di essere apprezzata solo per lo charme e la straordinaria presenza scenica, e di aver raggiunto una fama planetaria grazie al personaggio della bomba sessuale al platino che le era stato modellato addosso. Per evitare di restare intrappolata in un cliché, aveva più volte pregato la sua casa di produzione, la 20th Century Fox, di assegnarle ruoli drammatici, ma lo studio aveva mostrato una totale indifferenza: alla mancanza di fiducia nelle doti recitative della Monroe si era aggiunto il secco rifiuto del capo della Fox, Darryl F. Zanuck, di rovesciare un’impostazione che sembrava funzionare a meraviglia. Marilyn non si era arresa e aveva preso a brigare per ottenere una parte nella megaproduzione di Michael Curtiz, The Egyptian, che nelle intenzioni di Zanuck sarebbe dovuto essere il film più prestigioso mai realizzato dalla Fox.
Il personaggio che l’attrice desiderava interpretare era quello di Nefer, la micidiale prostituta babilonese che conduce alla dannazione dei sensi e al disfacimento morale il giovane e ingenuo Sinuhe, un medico dell’Antico Egitto in cerca della verità. Quando Marlon Brando manifestò interesse per il ruolo di Sinuhe, l’entusiasmo di Marilyn raggiunse il parossismo. La radiosa bellezza bionda della Monroe poteva sembrare inadatta a un film ambientato ai tempi del faraone Akhenaton. In verità, in alcune sessioni fotografiche con Milton Greene, Marilyn mostrò una duttilità sorprendente nell’assumere le sembianze di una grande varietà di personaggi, dall’indovina alla santa, e, davanti all’obiettivo di Richard Avedon, si trasformò con abilità camaleontica in Clara Bow, Jean Harlow, Marlene Dietrich, Lillian Russel e Theda Bara.

La metamorfosi in Theda Bara, in particolare, riuscì talmente bene che agli occhi di un osservatore inconsapevole la Monroe, ritratta con una parrucca nera e un intrigante abito egizio, ancora oggi risulta irriconoscibile.



La campagna di Marilyn per interpretare Nefer fallì per eventi che nulla avevano a che fare con il misconosciuto eclettismo e le inespresse potenzialità della bionda attrice. Nell’estate del 1951, durante un viaggio in Europa, Darryl F. Zanuck e sua moglie Virginia avevano conosciuto a Parigi una vivace ed esotica brunetta dagli occhi verdi, Bayla Wegier. Frequentandola, gli Zanuck avevano appreso che Bayla Wegier era un’ebrea polacca scampata miracolosamente ai campi di concentramento di Osnabriick e di Auschwitz, era reduce da un divorzio con un ricco industriale e stava andando alla deriva tra bar e casinò. Complice la suggestione delle traversie della ragazza, gli Zanuck si erano infatuati di Bayla e avevano maturato la convinzione che avrebbe potuto sprigionare dal grande schermo il medesimo appeal di Greta Garbo. Avevano pagato gli ingenti debiti che la Wegier aveva contratto al tavolo da gioco, l’avevano condotta a Hollywood e alloggiata nel cottage riservato agli ospiti della loro faraonica villa a Santa Monica e l’avevano preparata per il lancio nel firmamento delle star con il nome di Bella Darvi, combinazione dei nomi dei mentori dell’aspirante diva: ‘Dar’ da Darryl e ‘vi’ da Virginia. Ben presto la voce di un ménage à trois tra Bella e gli Zanuck aveva cominciato a circolare tra gli addetti ai lavori della Mecca del Cinema.


Nonostante un provino in CinemaScope avesse rivelato una totale mancanza di talento da parte della ragazza, Darryl F. Zanuck, che nel frattempo aveva aggiunto al ruolo di pigmalione quello di amante, aveva fatto debuttare Bella Darvi nel film Hell and High Water, con esito non entusiasmante. Determinato a dimostrare che la Darvi sarebbe diventata la più grande stella dello showbiz, la scritturò per l’ambito ruolo della seducente cortigiana di Babilonia nel colossal The Egyptian. Marilyn, scartata per la parte di Nefer, fu ingaggiata per The River of No Return, western di scarso valore e facilmente dimenticabile, che la Monroe avrebbe in seguito liquidato come «un film di cowboy di serie B».



The Egyptian uscì nelle sale cinematografiche nel 1954 e, nonostante il forte impegno produttivo, la meticolosa accuratezza storico-iconografica e il massiccio battage pubblicitario, non ebbe un grande successo commerciale e artistico. I lettori dell’omonimo bestseller del finlandese Mika Waltari, da cui il film era stato tratto, si dichiararono delusi della trasposizione cinematografica, priva delle sfumature filosofiche ed esistenziali del romanzo. Critiche al vetriolo non vennero lesinate a Bella Darvi, che aveva abborracciato un’interpretazione della femme fatale ai limiti del ridicolo. Affetta da blesità e con un forte accento polacco, la Darvi pronunciò le battute in modo non sempre intelligibile. Marlon Brando, che aveva accettato il ruolo di protagonista di The Egyptian, aveva abbandonato il progetto all’ultimo momento proprio a causa dell’imperizia della Darvi ed era stato sostituito in corsa dal poco noto Edmund Purdom. Il biografo Darwin Porter ricostruisce così gli eventi che portarono alla defezione dell’attore: Bella Darvi si sarebbe presentata senza preavviso a casa di Marlon Brando due giorni prima dell’inizio delle riprese di The Egyptian e avrebbe snocciolato l’intero elenco delle sue passate sventure. Brando l’avrebbe pazientemente ascoltata, versandole da bere un bicchiere di scotch dopo l’altro. La serata si sarebbe conclusa nella camera da letto di Marlon e, il mattino seguente, Bella se ne sarebbe andata di buon’ora per recarsi allo studio. Qualche ora più tardi Brando avrebbe rivelato all’attore Sam Gilman i dettagli della notte trascorsa con la Darvi: «So che Zanuck ha una cotta per Bella, ma lei non è proprio in grado di recitare. Abbiamo fatto finta di fare una scena insieme. È un caso senza speranza. Non posso credere che Zanuck sia talmente innamorato da non rendersi conto che quella cagna non solo è strabica, ma ha anche una pronuncia blesa e un marcato accento straniero. Il pubblico americano non capirà una sola parola di ciò che dirà. Parla in modo impastato. Naturalmente questa potrebbe essere una conseguenza di tutti gli scotch che ha mandato giù. Uno che borbotta in un film - vale a dire me - è già abbastanza. Inoltre Bella ha il peggior fiato da ubriaca che mi è capitato di sentire da quando mi sono avvicinato a Joan Crawford. Per nessuna ragione al mondo reciterò con lei. La prima cosa che farò domani sarà dire a Zanuck che sono fuori dal film».

Con buona pace dei critici americani e di Marlon Brando, Bella Darvi ottenne dalla stampa estera il premio Golden Globe come ‘migliore attrice debuttante’ del 1954 e, nel corso della medesima cerimonia, svoltasi nello sfarzoso Club Del Mar di Santa Monica, vennero assegnati il Golden Globe alla carriera a Darryl F. Zanuck e il Golden Globe come ‘attrice più famosa del mondo’ a Marilyn Monroe, che nello stesso 1954 si era riconfermata regina del box-office con il già citato e mediocre The River of No Return, miscela di grandiosità e cliché da Far West.
Forte del suo successo commerciale, Marilyn creò una casa di produzione indipendente per esercitare un controllo artistico sulla sua carriera. Irritato dal tentativo della Monroe di rendersi autonoma, Zanuck le ricordò il vincolo contrattuale con la Fox e le ingiunse di partecipare alla realizzazione della commedia How to Be Very, Very Popular. Marilyn rifiutò di interpretare ancora una volta il personaggio ormai stereotipato della bionda formosa e sciocca e Zanuck, furente, la sospese immediatamente. Lasciando i suoi legali alle prese con lo studio, la Monroe partì alla volta di Manhattan, il cuore pulsante del teatro americano, per iscriversi all’Actors Studio e realizzare il suo sogno di diventare un’attrice impegnata.
Mentre Marilyn inaugurava a New York una nuova fase della sua carriera, la Darvi toccava il fondo. Malgrado fosse ormai evidente che Bella non aveva la stoffa della diva, Zanuck la scritturò per un nuovo film, The Racers. Fu il terzo e ultimo fiasco di Bella Darvi a Hollywood. Virginia Zanuck, quando seppe che la ragazza aveva istigato Darryl, completamente ubriaco, a esibirsi in una serie di acrobazie su un tavolo del night club Ciro’s, buttò la Darvi fuori di casa. Il matrimonio degli Zanuck andò in frantumi e Darryl partì con Bella per l’Europa, dove intendeva continuare a promuovere la carriera dell’amante con pellicole indipendenti, ma a Parigi scoprì che la Darvi era bisessuale e troncò la relazione. Bella apparve senza successo in una manciata di mediocri film francesi e italiani e già al principio degli anni Sessanta la sua carriera cinematografica poteva dirsi conclusa. Cercò di scrivere un libro di memorie, Why I Never Worked with Marlon Brando and Other Tales of Hollywood, ma non riuscì ad andare oltre il primo capitolo. Con la vita personale e professionale in crisi, la Darvi non aveva più niente a cui aggrapparsi. Iniziò a cadere in una sempre più profonda spirale di depressione, segnata dall’abuso di alcol e droghe e dall’ossessione compulsiva per il gioco d’azzardo. Prese a vagabondare da un casinò all’altro, perdendo una fortuna. Quando, per saldare i debiti accumulati al tavolo verde, fu costretta a vendere gioielli, pellicce, abiti e persino due barboncini, Bella tentò di uccidersi per la prima volta. Zanuck accorse al suo capezzale, ma quando la Darvi, riavutasi, ripiombò nel vortice dell’azzardo, il produttore la abbandonò definitivamente. Dopo altri due tentativi di suicidio sventati, Bella, nel settembre del 1971, riuscì nel suo intento, lasciando aperto il gas nel minuscolo appartamento di Monte Carlo dove viveva. Fu trovata morta solo una settimana dopo il decesso, in stato di decomposizione.

 Bella Darvi costituisce la dimostrazione di come lo star-system possa mantenere ed esaltare una star, ma non fabbricarla: risposta a un bisogno di tipo affettivo o mitico, una star è una divinità creata dal pubblico. Undici anni dopo la morte della Darvi, François Truffaut scrisse: «Contrariamente a quel che crede la gente, non sono i produttori o i registi a creare le star, ma il pubblico. Nei primi anni Cinquanta il capo della 20th Century Fox, Darryl F. Zanuck, offriva i ruoli migliori alla sua amante Bella Darvi, ma i film che realizzò con lei furono tutti dei fiaschi. Nella stessa casa di produzione c’era una stock-girl alla quale non affidavano che ruoli secondari, ma ogni sua apparizione sul grande schermo suscitava l’entusiasmo del pubblico in ogni angolo d’America. Così, malgrado la Fox, Miss Monroe divenne Marilyn».
Marilyn è ancora oggi la più fulgida tra le star; ma anche la sua vita finì in tragedia, proprio come quella di Bella Darvi

 Si ringrazia per la pubblicazione Stile Maschile

martedì 2 giugno 2015

HISTORIADOR DOBLE HORA

Senza tempo, elegante e distintivo

Per la creazione di questo nuovo capolavoro Cuervo y Sobrinos ha attinto ancora una volta alla sua conoscenza degli orologi meccanici classici e alla competenza dei suoi mastri orologiai. Il modello Historiador Dual Time si ispira alla raffinata sensibilità cosmopolita che permeava l’Avana negli anni ‘40.

Distintiva ed elegante, la cassa dell’Historiador Dual Time è la riproduzione di un modello originale iconico Cuervo y Sobrinos prodotto tra gli anni ‘40 e ’50 del secolo scorso. Classico e senza tempo, questo orologio è riconoscibile per la sua caratteristica silhouette e la forma delle anse. Un ricco quadrante “clous de Paris” si abbina perfettamente allo splendido blu cobalto delle lancette esprimendo al meglio il meticoloso approccio e l’arte orologiera di Cuervo y Sobrinos.

Un orologio di carattere per uomini di forte personalità, con lo stile e la grazia dei veri gentleman. Come tutti i modelli Cuervo y Sobrinos, Historiador Dual Time è dedicato a chi ambisce possedere un orologio unico, con una identità e un retaggio inimitabili.

All’interno della cassa un movimento automatico CyS 6110 dà vita alle seguenti funzioni: ore, minuti, secondi centrali e secondo fuso orario alle 6 e datario con lente magnificatrice alle 12. Attraverso il fondo trasparente si può ammirare la massa oscillante con inciso il logo CyS. Historiador Dual Time ha una riserva di carica di 42 ore e una impermeabilità garantita fino a 3 atmosfere. L’orologio è rifinito con un cinturino in alligatore della Louisiana e una fibbia déployante in acciaio.


Scheda Tecnica

Nome
HISTORIADOR DOBLE HORA


Riferimento
3194D.1A (quadrante argento)


Movimento
CYS 6110

Movimento automatico

Soprod TT651

Altezza 5,10 mm

Diametro 25,6 mm (11 1/2)

21 rubini

Grande datario

Riserva di carica di 42 ore

Rotore con personalizzazione CyS




Funzioni
Ore, minuti, secondi centrali, secondo fuso orario alle 6

Grande datario alle 12


Cassa
Acciaio inossidabile

Diametro 40 mm

Altezza 11,25 mm

Vetro zaffiro antiriflesso a doppia bombatura

Impermeabile fino a 3 ATM

Fondo trasparente con chiusura a vite


Quadrante
Colore argento

Indici "clous de Paris"

Logo CyS applicato

Complesso quadrante "clous de Paris"

Lancette blu (su quadrante argento)


Cinturino
Alligatore della Louisiana


Fibbia
Fibbia déployante in acciaio
  

lunedì 1 giugno 2015

OSCAR FARINETTI "SMETTIAMO DI PIANGERCI ADDOSS0" di Nadia Afragola Foto di Matteo Cherubino

Sfoglialo on-line
L’imprenditore piemontese è una delle figure chiave dell’Expo, tanto contestato, ma altrettanto fortemente voluto alla guida di quei 16 mila mq dentro l’Esposizione Universale. Con la sua Eataly ha conquistato il mondo, con il suo ultimo libro “Mangia con il pane” ha provato a fermare l’ondata di revisionismo che metteva in ombra l’operato dei partigiani della Seconda Guerra Mondiale. Poche settimane fa ha dato ufficialmente le dimissioni dal suo “impero” per concentrarsi sul futuro: Green Pea.


Le sono stati dati in affidamento diretto da Expo 16 mila mq senza gara. Perché si fidano tanto di Oscar Farinetti?
Il motivo per cui Expo ha affidato a Eataly, a Slow Food, a Identità Golose dei pezzi importanti è perché le ha ritenute a sua volta entità uniche. La maggior parte delle corruzioni arrivano dagli appalti e più regole fai, più truffatori trovi. Sono importanti la scienza e la conoscenza ma bisogna ridare spazio alla coscienza, a quella musica dell’anima che ti fa capire la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto.
Cosa si aspetta da Expo?
Mi aspetto che assolva alla sua missione principale, che provi a nutrire il Pianeta. Perché, anche se ci sono 7
miliardi di persone al mondo e produciamo cibo per oltre 12 miliardi di persone, quasi un miliardo è senza cibo? E perché quasi due sono obese? Bisogna cercare di riequilibrare la distribuzione. Poi mi aspetto che faccia uscire il nostro Paese dalla crisi: abbiamo il 70% del patrimonio artistico mondiale, i più bei paesaggi, la biodiversità più bella al mondo. Dobbiamo far venire voglia agli stranieri di tornare in Italia a fare i turisti e dobbiamo dare orgoglio agli italiani, che dovrebbero smettere di piangersi addosso e di narrare di un Paese, il loro, come l’ultimo della terra. La vera eredità di questa Esposizione Universale sarà la Carta di Milano, firmata dalle Nazioni Unite. Che impegni concreti possono essere presi considerando che il cibo non è un diritto? La grande missione dell’Italia è quella di dimostrare agli altri popoli, a quelli in crisi soprattutto, come investire sulla propria biodiversità. È impossibile trasferire il cibo, ma si può dare una mano a seminare la propria realtà. I 10 mila orti in Africa ai quali darà vita Carlin Petrini con Slow Food sono qualcosa di magnifico e Eataly si è impegnato a produrre mille di questi orti.
Ha deciso di parlare bene di tutti, in un clima generale di forte livore. Perché Caprotti l’ha così duramente attaccata?
Perché ritiene, non so se giustamente, di non essere al centro delle attenzioni di Expo e, non sapendo chi attaccare, se la prende con me. In Italia se fai bene il tuo lavoro, sei bersagliato: è un peso che devo sopportare. Caprotti è stato bravissimo a creare un’azienda di distribuzionedi retail di cibo italiano, Esselunga, ma è stato provinciale, perché non l’ha lanciata nel mondo e l’Italia è solo una minima porzione del mondo. Guardate la Francia con Auchan e Carrefour: in Cina hanno milioni di punti vendita e sono nati anni dopo Esselunga. Caprotti ha il limite di non aver capito il mondo.
Con Vittorio Sgarbi seguirà il progetto legato all’arte: Il tesoro d’Italia. Come nasce questa sinergia con un personaggio di così difficile gestione?
Basta non gestirlo e far sì che si gestisca da solo. Daremo spazio anche a uno studio fatto dai ragazzi di Eataly e narreremo i venti: spiegheremo la ragione di questa biodiversità, stretta da nord a sud, in un mare buono, sapendo di parlare di una situazione geografica unica al mondo. Non siamo particolarmente bravi, il nostro è puro “culo”. Nessuno di noi decide quando e dove venire al mondo: dobbiamo farci perdonare la
fortuna che abbiamo avuto a nascere in un Paese fantastico come il nostro e l’unico modo per farlo è accogliere i popoli. Il problema dell’Italia è la poca coscienza civica, il pressapochismo.
Si parla di nutrire il Pianeta e si accolgono Coca-Cola e McDonald’s tra gli sponsor. Perché un posto in prima fila?
A Eataly abbiamo creato il Giotto, un panino con carne che arriva dal nostro presidio Slow Food, all’interno del quale  sono usati solo mangimi naturali. È  un hamburger straordinario con il quale proviamo a rubare clienti a McDonald’s. Abbiamo poi fatto il Chinotto Lurisia, scuro come la Coca-Cola ma colorato con zucchero caramellato senza coloranti, per portare via clienti al colosso americano. Eataly è uno dei pochi posti al mondo dove non trovi la  Coca-Cola. Li rispetto, ma non fanno parte della mia idea di cibo. In Expo
non hanno un ruolo primario: McDonald’s è 1/16 di Eataly, i padiglioni sulla sostenibilità sono dieci volte lo spazio della Coca-Cola. Trovo giusto che Expo accetti le multinazionali e poi chi lo dice che loro due per fare un esempio che non sia italiano siano meno sostenibili della Nestlé? Andate a vedere a quanta gente danno da mangiare in tutti i sensi. All’interno di Eataly, dentro Expo, c’è anche un ristorante dedicato alla Nutella. Un atto dovuto verso una famiglia e un uomo, come Michele Ferrero, che tanto hanno dato all’Italia? Ricordiamoci che il 90% dello spazio è andato ai piccoli, sono 84 osterie che porteranno 900 piccoli produttori italiani, il restante 10% è andato alle grandi aziende che mi piacciono. Sì, era un atto dovuto a un uomo che ha dato tanto all’Italia e ad Alba, che è anche la mia città. La Nutella è un prodotto italiano che ci rappresenta nel mondo. All’interno troverete anche uno spazio dedicato a “Italia del Gusto” che mette insieme i più bei brand delle grandi aziende italiane: Barilla, Auricchio, Parmareggio. Sono un moderato, non un fondamentalista e mi piace guardare al meglio del mondo.
Siamo la nazione del “grande potenziale inespresso”. Cosa resterà di questa edizione dell’Expo?
Spero che tutti abbiano fatto dei padiglioni a impatto zero e che sappiano, una volta finito Expo, come togliere e trasferire ogni singola vite. Noi sappiamo dove andrà a finire, a Bologna alla F.I.CO. (Fabbrica Italiana Contadina).
Due luoghi le sono molto cari: Torino, sede del primo negozio Eataly e Serralunga d’Alba, sede di Fontanafredda e della sua Fondazione. Cosa lega due posti così metafisicamente lontani?
Sono luoghi piemontesi e figli di un carattere che si può classificare con la teoria dei contrasti apparenti, parliamo di una timidezza sfrontata, di una innovazione rivolta alla tradizione, di un coraggio corsaro, di valori positivi che i più considerano contrastanti e invece possono coesistere benissimo in un carattere di atavica timidezza. Poi c’è Milano che mi ha accolto benissimo, i suoi cittadini sono il popolo più bello d’Italia e non è un caso che il loro PIL sia il più alto d’Europa. Parliamo di una città fatta di persone straordinarie, tolleranti, reattive.
«Ricordati, ragazzo, che le persone sono più importanti delle cose»: lo diceva suo padre e lo ritroviamo nel suo ultimo libro. “Mangia con il pane” è la storia di una famiglia italiana. Come nasce questo libro che pare un diario?
Nasce per far sì che non si perda la memoria di questa resistenza, della nuova primavera, perché se non ci fossero stati i partigiani non avremmo avuto lo stato libero, non avremmo fatto la Costituzione e saremmo stati terra di conquista come Berlino Est. E poi volevo abbattere l’ondata di revisionismo per cui molti si permettono di dire che i partigiani si sono comportati male.
C’è qualche imprenditore che rispetta, al di là dei suoi figli?
Ti potrei dire tanti nomi, se pensi all’Italian pensi alle 3F: forniture, fashion, food. Direi Guzzini, Valcucine, Flu, Artemide, tutte aziende di famiglie straordinarie. Nel fashion come non citare Armani, Diesel, Cruciani, Cucinelli, Loro Piana, Della Valle, Geox. Nel food non cito nessuno per rispetto, ma tirerei in ballo anche i cuochi, sempre più imprenditori del nostro Paese. Gaia e Ceretto sono da nominare, come Rivetti e Allegrini: l’Italia è un tessuto di gente bravissima, più brava di me e io ogni giorno imparo qualcosa da tutti
loro. Cambia mestiere ogni dieci anni. Il primo Eataly fu aperto nel 2007. Cosa ha in mente ora? Ho un limite: non esprimo più creatività nello stesso mestiere dopo dieci anni. Come fanno a fare politica per
25 anni? Come posso pensare bene di loro? Non possiedo più neppure una quota di Eataly, non sono più amministratore delegato da quattro anni e da qualche settimana ho dato le dimissioni da presidente. È giusto che faccia un passo indietro e che lasci, ai miei figli, il campo libero. Sto per iniziare una nuova
avventura che mi occuperà la vita, tra i 60 e i 70 anni. Partirà dall’Italia e andrà nel mondo perché non concepisco nulla che non abbia una portata globale. Merito di mia madre che mi diceva sempre: “Se non sai vendere a casa tua non lo farai certo fuori”. Il progetto si chiama Green Pea, “pisello verde” e si occuperà di sostenibilità. I prossimi 20 anni saranno contrassegnati da questo: creare business sostenibile nel Pianeta,spostando il valore del rispetto dal senso del dovere al senso del piacere.

Si ringrazia per la pubblicazione Club Milano