Dopo aver ospitato la mostra fotografica “Milano città
d’acqua” a Palazzo Morando, oggi il capoluogo lombardo torna a parlare del
progetto di riaprire i navigli: ormai qualcosa in più di un semplice sogno a
occhi aperti.
Laghetto, Pontaccio, Pantano, Bagnera, Fontana e Molino
delle Armi: sono sufficienti i nomi di queste
vie per ricondurci a un tempo in cui Milano era innervata di
rogge, rigagnoli, torrenti, canali e navigli: ben 124 erano quelli conteggiati
nel 1888. Ma basta tornare un po’ più indietro nella storia per non trovare
altro che conferme in questo senso, come hanno ben documentato le 150 immagini
d’epoca della mostra Milano città d’acqua.
Già dalla sua fondazione Medhelanon, sorta nella fascia
delle sorgive dove l’acqua riaffiorava naturalmente in superficie, si è dovuta
confrontare con questo elemento: l’acqua da incanalare per evitare il ristagno
delle paludi, quella dei fiumi per costruire canali navigabili destinati al
trasporto di merci e persone e quella che serviva per l’irrigazione dei campi.
Tutta quest’acqua dava senso alla città, era l’elemento fondamentale del suo
paesaggio, fonte di vita, benessere, ricchezza e lavoro, con i tre navigli: il
Grande, la Martesana, il Pavese pronti a condurre in Darsena una grande abbondanza di merce
di ogni sorta.
Eppure basta arrivare ai primi anni Venti del Novecento per
vedere tutta quest’acqua sprofondare sotto centimetri di asfalto. Erano gli
anni del Futurismo, del progresso a tutti i costi e vestita del manto della
modernità è arrivata anche la decisione del governo Mussolini di ricoprire i
navigli. In breve dal 1929 fino agli anni Sessanta venne chiuso un tratto
fondamentale dei navigli interni: quegli otto chilometri che da Cassina de’
Pomm in via Melchiorre Gioia, passando per via San Marco e la cerchia dei
navigli, connettevano il Naviglio Martesana a quelli Grande e Pavese. Quello
che rimase è oggi sotto gli occhi di tutti. Le ragioni avvallate furono in
primo luogo di ordine sanitario, anche se una smentita in tal senso arriva
dalle tante fotografie di inizi Novecento, quando in questi corsi d’acqua si
pescava, si faceva il bagno e si lavavano i panni, tutte immagini che non fanno
pensare a grossi problemi di natura igienica. Invece l’altra esigenza forte e
reale era dotare la nascente metropoli di un’adeguata rete stradale. Di sicuro
l’opportunità di mettere a reddito quello che fino ad allora era stato un
patrimonio pubblico prevalse su ogni altra considerazione. Nel conto non entrò
il fatto che così facendo si interrompeva la continuità del sistema dei navigli
lombardi e si infliggeva alla città una grossa ferita.
Ponte di via Montebello. Foto di Civico archivio
fotografico. Courtesy mostra “Milano città d’acqua”
Oggi che l’immagine di Milano città d’acqua sta
riconquistando terreno, è tornato in auge anche il progetto di riaprire quegli
otto chilometri interrati quasi novant’anni fa e se all’inizio era la
diffidenza a prevalere, ora fra tanta curiosità comincia a farsi strada anche
qualche consenso. Il progetto, da realizzare all’interno della città e del suo
centro storico, rimetterebbe in collegamento l’intero sistema dei navigli di
Lombardia: la Martesana con il Naviglio Grande e quello Pavese, poi riconnessi ad
Adda, Ticino e Po e quindi in ultima istanza al lago di Como, al lago Maggiore
e al mare. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare dal punto di vista
urbanistico, idraulico, dell’ingegneria e della riorganizzazione della
viabilità, il piano è fattibile: ci ha lavorato un team di docenti del
Politecnico con un gruppo di esperti di Metropolitana Milanese, dell’Agenzia
Mobilità Ambiente e Territorio con alcune direzioni centrali del Comune e il
grosso del progetto già c’è. Sei o sette sono gli anni di lavoro stimati
procedendo per tratti e dal punto di vista finanziario la questione è
affrontabile anche tramite ricerca di finanziamenti. Tuttavia, data la portata
dell’iniziativa e considerate le problematiche della viabilità da risolvere, i
milanesi, come da programma del nuovo sindaco, potrebbero essere chiamati a
dire la loro con un referendum, questa volta vincolante per l’amministrazione
pubblica.
Il progetto rappresenterebbe una piccola-grande rivoluzione
capace di restituire alla città una nuova visione culturale, urbana e umana.
Del resto è bastato riaprire la Nuova Darsena perché in poco tempo diventasse
patrimonio di tutti, luogo di svago e decompressione e, perché no, motivo di
orgoglio non solo per coloro che abitano lì vicino. Lo stesso accadrebbe con i
navigli da vivere e usare passeggiando lungo le rive, percorrendo le alzaie di
nuovo riconnesse e navigandoci sopra con le imbarcazioni più diverse, dal
battello a 35 posti alle house boat, alle canoe. Semplice bellezza, diletto
dell’animo, un sogno che torna a scorrere davanti ai nostri occhi. E basta
dirlo per far comparire gli estremi di un sorriso anche sullo sguardo più
scettico: perché non pensarci?
In apertura: Bambini alla vedovella. Foto di Archivio
Farabola. Courtesy mostra “Milano città d’acqua”. Di seguito Ponte di via
Montebello. Foto di Civico archivio fotografico. Courtesy mostra “Milano città
d’acqua”
Articolo
pubblicato su Club Milano 33, luglio – agosto 2016.
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