Chiamarlo fotografo è riduttivo. Personaggio poliedrico, è
stato uno dei protagonisti degli ultimi 50 anni tra arte, fotografia, progetti
editoriali e sociali. Un uomo che ha fatto del mondo la propria casa, ma che
non ha problemi a parlare della sua città natale.
Il titolo del suo nuovo libro, sintesi delle sue più
importanti battaglie in giro per il mondo, è Più di 50 anni di magnifici
fallimenti. Perché questa scelta?
Questo libro è nato perché tutti mi hanno chiesto di farlo,
i miei amici e le persone a me più vicine mi hanno convinto. E io l’ho fatto.
Ma resto dell’idea che la fotografia non serva per fare libri o per le
esposizioni fotografiche. La fotografia è semplicemente uno strumento utile ai
mezzi di comunicazione di massa, è una cosa seria che non serve per il proprio
compiacimento estetico. Non è un fine, ma un mezzo, per andare da qualche parte
e dire qualcosa a qualcuno.
Cosa si ricorda della Milano della sua infanzia?
Mio padre è nato in via Cappellari, vicino a piazza del
Duomo; da ragazzo, nel 1920 circa, vendeva le gazzose sul Duomo ed è diventato
poi il primo reporter del Corriere della Sera. Io sono nato sotto le bombe del
‘42, però, compiuti sette mesi, i miei decisero di scappare a causa dei
bombardamenti e ci trasferimmo a Clusone (in provincia di Bergamo) in una casa
di contadini. Lì sono rimasto fino ai sette anni, quando ho iniziato ad andare
a scuola. Mi ricordo che io e i miei amici eravamo ragazzi di strada: giocavamo
ai tollini (un gioco con i tappi, NdR), alle biglie in mezzo alle macerie. Era
tutto bellissimo, Milano era bellissima. Un grande parco giochi per noi che
eravamo piccoli. E per fortuna in quel periodo c’erano due cinematografi e io,
la mattina alle otto, invece di andare a scuola andavo al cinema. Quindi Milano
è dove mi sono formato sulla cultura cinematografica degli anni Cinquanta. E
trovo che sia stato molto più istruttivo, e meno noioso, della scuola.
Quali differenze e analogie con la Milano odierna?
Vivevamo in una zona che non riconosco più, che è
radicalmente cambiata, all’angolo tra corso Como e piazza XXV Aprile. Andavo a
scuola lì vicino e passavo i pomeriggi al 10 di corso Como che allora non era
lo spazio della moda e del design, ma solo il primo centro di imbottigliamento
della Coca Cola. Io e gli altri ragazzini andavamo armati di spazzoline a
pulire le bottiglie che tornavano indietro sporche. La ricompensa? Una Coca
Cola, che per noi era un lusso. E questa alla fine è stata un po’ la storia e
la fortuna di Milano: lo sfruttamento minorile, degli immigrati, della gente
del Sud… E ricorderò sempre le parole di mia madre, che fino alla fine mi ha
ripetuto: “Oliviero, da quando Milano non è più generosa, ha perso la sua
forza”. E aveva ragione, guarda cosa succede oggi per esempio.
A Milano o in generale in Italia?
Milano è fortunata. Ho seguito la campagna di Giuliano
Pisapia e sono molto soddisfatto dal lavoro che ha svolto come sindaco.
Soprattutto considerando quanto sia difficile come città. Non so se ha fatto
tanto o poco, non ho un metro per giudicare così bene le cose, ma so che è
stato in grado di rimettere Milano su un binario per il futuro. Certo si
potrebbe fare anche di più, perché resta una città fatta di eccellenze in
diversi campi, come poche altre al mondo possono vantare. Ma il problema forse
è proprio questo. Come l’Italia intera, anche Milano produce tantissimi
individui che rappresentano l’eccellenza nel loro campo, ma che proprio per
questo non sono in grado di fare sistema e i risultati si vedono.
Si riferisce forse a Expo? Nei mesi scorsi non ha usato
parole dolci nei confronti della manifestazione internazionale. Sempre della
stessa idea?
Io resto fedele alla mia idea. Tutti fanno finta di niente,
ma rimango convinto che sia stato interamente creato intorno a un interesse
privato e di accordi con le multinazionali. È stata una grande paninoteca a
cielo aperto, ma non ho visto nessuna soluzione per nutrire il pianeta. Fin
dall’inizio ho sostenuto che tutto questo sia servito a smuovere un po’ le
cose, ha dato lavoro a tanta gente e comunque questo genere di iniziative
funzionano. Ma quanto è costato? Il problema è molto semplice: quando Milano
vinse con fatica il concorso contro Smirne, insieme a Sgarbi e a una serie di
persone pensai a un progetto ispirato alla mia milanesità. Un progetto per
portare in città tutti i vari problemi che il mondo non ha il coraggio di
guardare: immigrazione, razzismo, lavoro giovanile, discriminazione femminile…
Quando portammo questa idea a chi allora era a capo di tutta la baracca, ci
dissero che mostrare queste criticità a Milano non avrebbe mai funzionato.
Nel 2007 però ha dato inizio al suo progetto Razza Umana.
Tratta di tematiche simili.
Sì, certamente è un progetto legato a questo tipo di
tematiche e da allora prosegue ininterrotto, tra poco infatti tornerò in Sud
America e poi in Africa.
Ha avuto un grande successo…
In realtà io non lo faccio per avere un feedback da
qualcuno, non è un lavoro che ho fatto per avere consenso. Anzi, se c’è
consenso, ci si dovrebbe chiedere se c’è qualcosa che non va. Quando tutti mi
danno ragione forse vuol dire che ho sbagliato qualcosa.
Una lezione da non dimenticare che l’ha sempre guidata nei
suoi lavori?
Assolutamente. Mi ricordo nitidamente di aver proposto un
reportage sul primo concerto italiano dei Beatles circa 50 anni fa a L’Europeo,
ma la redazione mi rispose che non sarebbero durati più di sei mesi e di non
perderci tempo. Io andai comunque a seguire il concerto e per me fu un’opportunità
unica per fotografare l’espressione della mia generazione. Poi una redattrice
di Annabella mi propose di fare alcuni scatti di moda e io molto semplicemente
scesi nel cortile della Rizzoli e fotografai i tanto famosi cappotti colorati.
E da quel momento tutti iniziarono a chiedermi di fare fotografie di moda.
Quindi un inizio casuale in questo mondo?
Uno che fa solamente il fotografo di moda non può ritenersi
un fotografo. Io non ero particolarmente interessato a questo genere di scatti.
L’unica cosa che poteva interessarmi erano le ragazze (ride, NdR).
Oliviero Toscani Club Milano
Domanda di rito che non posso evitare: con l’avvento del
digitale come sono cambiate le cose?
Non è cambiato granché, anzi mi dà un po’ fastidio parlarne,
perché la tecnologia non mi entusiasma, come non mi entusiasmano gli ultimi
ritrovati tecnologici. La tecnologia è sempre vecchia, guarda sempre indietro e
non ci può parlare del futuro. Il futuro è immaginazione e basta, al contrario
della tecnologia. Infatti abbiamo paura del futuro perché non abbiamo più il
coraggio di incontrarlo.
Lei non ha avuto paura di incontrarlo, il futuro. Ha
lavorato con alcuni dei nomi più illustri dell’eccellenza italiana, ad esempio
con Elio Fiorucci, scomparso lo scorso 20 luglio.
Elio Fiorucci è sempre stato un amico, fin dal principio
degli anni Sessanta quando entrambi stavamo iniziando. Ci vedevamo molto spesso
a Londra perché lui era interessatissimo a quella città e io vi ero legato
perché ci avevo studiato per qualche mese nel ‘62 e ci tornavo spesso. Lavoravo
sempre di più per i giornali e lui iniziava ad attirare sempre più simpatie da
parte della stampa perché proponeva sempre cose nuove e di tendenza. E da lì
tutto è cominciato.
Ha lavorato a stretto contatto anche con Flavio Lucchini di
Superstudio, cosa ci può raccontare di quell’esperienza?
Non ho mai avuto uno studio veramente mio. In realtà l’ho
avuto per poco tempo in via Argelati di fronte a quello di Joe Colombo, ma è
durato poco perché non mi piaceva l’idea di essere legato a qualcosa, a un
luogo. Non mi sentivo libero. E anche con Flavio Lucchini è stato lo stesso,
andavo a lavorare da lui ogni tanto quando non ero in redazione. E poi un
giorno ci siamo detti: “Perché non prendiamo uno studio insieme in affitto?”.
Si faceva già a Parigi e a Londra, a Milano invece si andava in quelli di altri
fotografi o si faceva tutto in esterno. Cominciammo a cercare, e io trovai lo
spazio dove ora sorge Superstudio. Mi piaceva quella zona, c’erano ancora le
fabbriche funzionanti e di giorno era pieno di operai con la schiscetta, altro
che fighetti della moda di oggi. Ci interessammo e ci accordammo per comprarlo.
Un lunedì mi aspettavano a Milano per firmare il compromesso, ma c’era qualcosa
che non mi tornava… Costava 80 milioni di lire a testa e la domenica prima
mentre ero a cavallo con mia moglie in Toscana, dove già vivevo, passammo di
fianco a un terreno di circa 10 ettari che mi aveva sempre fatto gola e c’era
il contadino. Gli chiesi se si era deciso a vendermelo oppure no. La domenica
chiamai Lucchini, gli dissi che ero fuori e che avevo trovato quel terreno. Lui
mi disse: “Me l’aspettavo”. Da allora, quando vengo a Milano vado lì a
lavorare.
Lei è molto legato alla stampa e al mondo delle riviste…
Sì e il mio sogno nel cassetto è diventare direttore de Il
Corriere della Sera. E questo devi scriverlo (lo dice ridendo, NdR): finalmente
il Corriere non avrebbe più problemi e farebbe il record di copie. Farei un
giornale fantastico.
La proporremo certamente. Però ha già dato il via a un
progetto editoriale, giusto?
Ho creato la rivista Colors quasi trent’anni fa e ritengo
che sia ancora un progetto attuale. Tutto è nato durante la mia collaborazione
con Benetton, perché avevo una marea di fotografie che la stampa rifiutava
perché troppo d’impatto e socialmente impegnate. Erano ritenute scandalose e
scomode. E allora parlai con Luciano Benetton e gli proposi di investire su un
house organ, lui capì subito e mi disse: “So già cosa farai…” e feci Colors. È
nato come il giornale che parlava del resto del mondo ed era un mio
esperimento. Ora vorrei fare un quotidiano e spero che mi diano il Corriere.
E per quanto riguarda Fabrica?
È andata più o meno nello stesso modo: volevo creare un
centro ricerche e le ho dato vita. Ma ora non la seguo più.
È stato un incontro fortunato quello tra lei e Benetton.
Come diceva Frank Lloyd Wright: “La qualità
dell’architettura dipende dall’intelligenza del committente”, se questo non è
intelligente nessun artista può produrre qualcosa di magnifico. Benetton lo è
sempre stato. E la rottura fra noi è avvenuta come una conseguenza inevitabile.
Tre anni prima di quanto hanno scritto i giornali, ci siamo accordati perché
alla nascita di Fabrica io lasciassi, non volevo diventare un impiegato che
timbra il cartellino. Me ne sono andato dopo aver finito la serie sui detenuti
nel braccio della morte negli Stati Uniti. Quello che hanno raccontato è stata
una montatura perché la
gente ha sempre bisogno di trovare una spiegazione alle
cose.
Intervista pubblicata su Club Milano 29, novembre – dicembre
2015. Clicca qui per scaricare il magazine.
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