Alla vigilia delle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016 abbiamo fatto
due chiacchiere con il campione di Barcellona ’92, occasione in cui
il nuotatore “figlio d’arte” si portò a casa il bronzo nei 400 misti.
Presidente oggi della Dds di Settimo Milanese, un’officina dello
sport fondata dal padre Remo, e commentatore televisivo, Sacchi
non ha rimpianti, ma molti ricordi.
Trent’anni. Quasi, 28. La prima Olimpiade non si scorda mai, come il primo
grande amore, anche per un giornalista.
Seul, 1988. Era la seconda Olimpiade
asiatica, dopo quella di Tokio, 1964. I
Giochi Olimpici, i grandi avvenimenti
sportivi in genere, servono spesso per
mostrare i muscoli di una nazione. La
Corea del Sud era allora un Paese rampante, una delle cosiddette tigri asiatiche. Fu un grande spettacolo, anche
perché, dopo tre edizioni zavorrate
da veti e boicottaggi (1976 Montreal,
1980 Mosca, 1984 Los Angeles) la fine
della Guerra Fredda riempì il villaggio
di una popolazione di atleti, di ragazzi,
che guardavano il mondo con più ottimismo e meno sospetto reciproco. Tra
questi un ragazzo milanese di vent’anni
(10 gennaio 1968), un nuotatore di Se
-
sto San Giovanni, figlio, nipote, parente
di nuotatori e pallanuotisti, uno dei pochi nuotatori italiani tornati dall’Olimpiade con una medaglia, ora un uomo
con due figlie, Viola 15 anni e Greta 10
e una storia da farci conoscere. In vista
di Rio de Janeiro, Giochi della XXXI
Olimpiade, ecco il racconto di Luca
Sacchi, da Milano a Milano, via Seul,
Barcellona, Atlanta (da atleta) Sydney, Atene, Pechino, Londra (da commentatore Rai). Suo padre, Remo Sacchi, e
sua madre, Bianca Furiosi, si conoscono
nella piscina della Rari Nantes Milano.
Dopo il loro percorso di atleti, insegnano nuoto a Sesto, infine, nel gennaio
del 1977 aprono la piscina della Dds
(Dimensione dello sport) a Settimo
Milanese. «Mio zio, comunista, la voleva chiamare Dipartimento dello Sport»
scherza Luca che venne, ovviamente,
sbattuto subito in acqua anche perché
«non avevo voce in capitolo». Stessa
fine per sua sorella, Marzia, che poi «ha
maturato un distacco progressivo per il
nuoto e ora fa tutt’altro, è emigrata in
Sardegna».
Luca invece è ancora qui, ora è presidente della Dds e ottimo commentatore per Raisport. Ma ci arriviamo.
Anche l’approccio con la piscina non è
di quelli esaltanti.
Non è che all’inizio impazzissi per andare in piscina. Recalcitravo, ma poi mi
hanno fatto annusare le gare e allora la
cosa mi è piaciuta.
La resistenza è dovuta anche a condizioni oggettive?
L’acqua non era calda come adesso, c’erano meno comodità, si soffriva di più,tutto era fatto per gente che si doveva
temprare.
La sua acqua milanese scorre dal
1977 per quasi vent’anni tra la piscina della Dds e quella, «come per tutti i
nuotatori milanesi», più grande di via
Mecenate. Un bel viaggio, mattino da
una parte, pomeriggio dall’altra...
Io abitavo in via Solari, prendevo i
mezzi, un’ora di tragitto.
A vent’anni si conquista un posto
all’Olimpiade di Seul.
Ci sono arrivato bene, mi sono qualificato ad aprile.
Fu un’Olimpiade storica...
Sì, solo che doveva essere l’anno di
Giorgio Lamberti nei 200 stile libero,
ma lui naufragò subito. C’era un clima
disarmante, la spedizione era gestita
male, la professionalità al minimo, io
ci sguazzavo. Alla fine, nella mia gara, i
400 misti (quelli che racchiudono tutti
gli stili: farfalla, dorso, rana, stile libero,
NdR), il romano Battistelli conquistò
uno storico bronzo e io il settimo posto.
Memorie?
Un impatto forte, è incredibile stare
tra un gruppo selezionato di atleti, i
migliori del mondo. Ed è appunto un mondo dei balocchi, quello dove si
vive, una realtà pazzesca: il villaggio
olimpico è frequentato da mostri del
basket alti due metri, lottatori con le
orecchie come polpette, eteree ginnaste,
ipercompresse nanette. È una popolazione
esageratamente buffa e tra
l’altro è tutto gratis. Mense aperte 24
ore al giorno, Coca-Cola a fiumi, l’Eden
per un ventenne. E poi attorno, c’era
una città che non capivamo per niente
e che non ci capiva. Mi è rimasto il rimpianto
per non essere stato a Itaewon,
il quartiere dei sarti a buon mercato e
della paccottiglia d’imitazione.
La gara?
Innanzitutto mi sono isolato. Come dicevo
il contesto italiano aveva già subito
un contraccolpo, di per sé è stata
una gara normale, io volevo entrare in
finale, e ce l’ho fatta per un nulla. Non
mi sono reso conto di cosa era successo.
Mi hanno fatto vedere il filmato «urca»,
ho pensato «faccio parte di quelli che
guardavo alla tv». Ero molto infantile.
Sono stato contento della gara, è stata
storica: il bronzo di Battistelli è stato
un trionfo. Il palmarés italiano all’Olimpiade
era modestissimo: medaglie,
a parte Novella Calligaris, zero. Ero
entrato con l’ultimo tempo, guadagnai
una posizione.
E Barcellona 1992?
Tutt’altra cosa. L’anno prima avevo
conquistato l’oro europeo per cui mi
sono presentato con ben altre aspettative
e maggiore consapevolezza. Tutto
era più familiare. Ora le Olimpiadi si
assomigliano tutte, stai chiuso in un
posto che potrebbe essere ovunque,
però a Barcellona si avvertiva che si
stava in Europa.
Ma per l’Italia si comincia come quattro
anni prima...
Via alle gare e subito disastro azzurro, i
duecentisti a picco, Minervini, considerato
da medaglia, non arriva nella finale
dei 100 rana.
Poi però arrivano due medaglie di
bronzo, quella di Battistelli nei 200
dorso e quella, fortemente voluta, di
Luca nei 400 misti...
Tutto abbastanza bene, batteria controllata, vinta, sensazione non di grande
facilità, lì ho segnato il tempo della
vita, la tensione cambiava la percezione.
La finale come mi aspettavo, rimontina
a rana per mettermi in terza
posizione, passaggio contratto, ma sostanzialmente
ricordo grande presenza,
lucidità.
Terzo italiano sul podio olimpico
dopo Calligaris e Battistelli. Fama?
A Milano qualcosa sì, ma molto meno
di quella di altri atleti. Un minimo di
popolarità si guadagna con il tempo,
non con il singolo risultato.
Verità. E poi Luca è pratico, concreto,
un vero milanese. La storia non è finita.
C’è ancora Atlanta.
Un capitolo a parte. Volevo fare il colpaccio,
la stagione era andata abbastanza
bene, ma io non sono arrivato bene
lì, non ero brillante, non ero lucido, è
paradossale ma è l’Olimpiade dove ho
subito di più la pressione che poi era
una pressione mia. Però era tutto brutto,
una brutta Olimpiade, tutto raffazzonato.
La mia gara? Difficile, batteria
spremuta, non c’era corrispondenza tra
intensità e risultato cronometrico, un
atleta normalmente lo capisce per cui
era tutto un po’ così, a 28 anni vecchio
o maturo o esperto che fossi, mi sono
capito meno del solito. Risultato: sesto
in una gara opaca, male i primi, chissenefrega,
male io, ci avevo provato. Avevo
fatto tanta altura, una super altura
in Bolivia. Ero il capitano, un ruolo che
non prevedeva un compito vero, ero
quello vecchio in una nazionale sfilacciata
come età e come obiettivi. Era
un’Olimpiade di passaggio. Si stava formando
una nuova generazione, quella
dell’età dell’oro.
Dopo Atlanta Luca Sacchi lascia l’agonismo.
Sono andato ai campionati italiani estivi
per salutare, mi sentivo più simile ai
genitori che ai miei compagni. Perché
ho fatto questa scelta? Nell’atleta c’è
sempre la paura del domani. Ti abitui
a una vita in cui tutti ti stanno dietro
e pensavo che andando avanti lo scotto
dell’ingresso nella vita reale sarebbe
stato più duro. La delusione per quel sesto posto ha fatto il resto. Oggi sarei
andato avanti ancora un po’.
Dal costume (pre-epoca dei costumoni)
all’attività di famiglia. Ma non
come allenatore.
Ho creato la sezione triathlon e allenato
per la gara a nuoto, ma ho fatto tutta
la vita dietro mio padre, prima come
figlio, poi come atleta e non volevo rimettermi
a ruota come tecnico.
Com’è stato il rapporto con Remo
Sacchi?
Nella parte finale della mia esperienza
scolastica e come atleta prima difficile
e poi buono. Si è trattato di un rapporto
padre-figlio, certo complicato, ma
c’era fiducia l’uno nell’altro. Alla fine
c’era un buon clima anche grazie alla
libertà che c’è qua dentro.
Possiamo dire che Luca Sacchi è diventato
un imprenditore alla milanese?
Diciamolo (ride, NdR). Nel 1996 sono
entrato in società come dirigente, nel
1998 ho costituito la società di gestione
che ha preso in mano il centro sportivo
che era di mio padre e dei vecchi
soci. Otto anni dopo ho liquidato tutti
i soci tranne mio padre, comprato l’immobile
e continuato a gestirlo.
Gli iscritti sono circa 3.500, i tesserati
agonisti sono circa 200 nel nuoto e più
o meno la stessa cifra nel triathlon.
Ai tempi in cui mi allenavo a Verona,
nel centro tecnico della Federnuoto,
eravamo venuti a contatto con i triatleti.
La disciplina era affascinante e
quindi abbiamo provato ad aprire una
sezione giovanile nel 2000 poi, piano
piano, siamo cresciuti. Il mercato nel
triathlon è più avanzato dal punto di
vista commerciale.
Grandi atleti sono passati da Settimo,
per un anno perfino Federica Pellegrini.
Brillante commentatore Rai, Luca
ha collaborato anche a diversi quotidiani
tra cui il Corriere della Sera. Da
Milano all’Olimpiade e ritorno. Sempre
con gli stessi problemi. Scarsità di
strutture?
Non mi pare che ci sia la volontà di
risolvere il problema degli impianti a
Milano. Siamo all’ultimo posto tra le grandi città europee, qualche occasione
si è presentata ma non si è mai fatto
nulla. L’Expo lo sport non l’ha preso in
considerazione.
Una volta si parlava perfino dell’Olimpiade
a Milano...
Anche più di una volta. Adesso attendiamo
quella di Roma. Purtroppo noi
italiani dimostriamo sempre di non essere
pronti ai grandi eventi e da sportivo
dire una cosa del genere mi dispiace.
Sono terrorizzato all’idea dell’impatto
economico sulla città.
Con o senza l’Olimpiade?
Milano mi piace, penso che stia vivendo
un bel momento è estremamente
attiva, è viva, divertente, anche se non
è amica dei bambini. Non ci sono spazi
verdi, è una città di cemento e questo
penalizza la qualità della vita, va vissuta dai 15 anni in su. Prima fa leva sulla
capacità di adattamento dell’uomo a
qualsiasi situazione nidi e sistema scolastico
inclusi. Dalle superiori in poi è
bello, chi viene a fare l’università ha
mille opportunità e anche la parte nuova
penso che sia stata fatta bene.
E ora un’altra Olimpiade, da commentatore.
Che farà “l’acqua azzurra”
in piscina?
Questa nazionale mi piace molto, mi
pare matura e preparata, arriva da un
Europeo diverso da quello del 2012
che rappresentò un’illusione. Questo è
un bel gruppo, di ragazzi “antichi” rappresentati
dalla Pellegrini mentre c’è
il gruppo dei giovani con Paltrinieri in
testa. Sono forti, hanno un bell’amalgama
malgrado la differenza d’età.
Prima di partire per Rio mettiamo in valigia un vademecum-souvenir per
rintuzzare la “saudade”. Luogo del
cuore?
Mi piace la zona che va dalle Colonne
di San Lorenzo a Porta Ticinese, poi la
parte nuova, attorno a piazza Gae Aulenti.
Piatto milanese del cuore?
Cotoletta.
Piatto di cucina internazionale?
Non uno in particolare, mi piace la cucina
orientale.
In vacanza, dove?
Storicamente in Grecia, quest’anno
Minorca.
Il più grande atleta?
Nel nuoto Popov, poi amavo Michael
Jordan e penso che Bolt sia qualcosa di
pazzesco.
Valigia chiusa, buon viaggio.
Si ringrazia della pubblicazione
Club Milano